Ha debuttato in forma di breve lettura in prima
europea ad Auschwitz il 20 gennaio 2019 davanti ad una delegazione del Miur e
agli studenti di alcuni Istituti scolastici italiani che, come tutti gli anni,
visita l’immenso lager dove persero la vita oltre un milione di persone. Approda
poi al Teatro Eliseo Shoah, martedì 29 gennaio ore 20 (atto unico 1 ora e 20’,
prezzo 15 euro) un monologo, una esecuzione polifonica, un ‘canto recitato’ a più
voci scritto da Giuseppe Manfridi e ispirato a Se questo è un uomo di Primo Levi. Manuele
Morgese presterà la voce ai diversi personaggi, testimoni e narratori dei
terribili e drammatici episodi legati alla Shoah, fondendosi, attraverso le
filastrocche di nera luce, alla musica della tromba di Fabrizio Bosso e del
pianoforte di Julian Oliver Mazzariello nel disegno registico di Livio Galassi.
Il regista ha poi raccontato: “Tutto è
stato detto, e tutto resta ancora da dire: esaurite le più atroci parole a
descrivere l’orrore del più abominevole crimine che la storia ricordi, non
esistono parole per comprenderne il recondito perché. Basta il cupo odio che
intatto ha attraversato i secoli fino a noi, fomentato da una religione che si
è impossessata del dio di Israele per reinventarlo a suo pro, perseguitando chi
non si piegava alle sue manomissioni e voleva conservare integre le proprie
antiche credenze, i propri miti, la propria appartenenza, la propria – pericolosa
– “diversità”? Forse un fondo di nera frustrazione ha irritato e ingelosito il
confronto con un popolo che sempre si è nobilmente rialzato dai reiterati
soprusi, aggrappandosi fiero alla sua antica e mai rinnegata cultura. Mi
chiedo, e vi chiedo – e lo chiedo soprattutto alla gretta imbecillità degli
antisemiti: se togliamo alla storia del mondo - religiosa, etica, sociale,
scientifica – gli ebrei Mosheh, ‘Abhrahm, Yehoshua ben Yosef, Marx, Freud,
Einstein… che ne sarebbe?... E come spiegare, come giustificare il complice
silenzio di tutti? Perlomeno di tutti quelli che sapevano, che intuivano, e che
potevano incidere con il loro potere? Con quale inaudita impudenza si può
testimoniare l’avvenuta ascesa in cielo di una madre vergine, e non la contemporanea
caduta di milioni di innocenti negli abissi della umana abiezione? Anche dalla
Tiburtina, da una stazione nella città del Cristo in terra, partivano i treni
per lo sterminio senza che nessun anatema li arrestasse. Doloroso e difficile è
stato per l’autore immergersi in questo oceano di amarezza. Come uscirne senza
scrivere di fatti e di giudizi che poco o nulla aggiungono al già scritto, al
già detto, al risaputo? Ma la luce della poesia è stata il faro che ha
illuminato l'approdo. Una luce nera è il dolente ossimoro che si riverbera
nella struggente scrittura, la quale sfiora appena i fatti e si dilata nello
smarrimento esistenziale che da quei fatti scaturisce. Parole che si frantumano
ai singhiozzi della mente, si disperdono e si ricongiungono a tracciare la
trama di un malessere senza riscatto e senza conforto. Da quella pesante
putredine sublimano, esalano leggere pur trattenendo l'atroce ricordo,
evanescenti come il fumo che usciva da quei macabri camini e che, testimonianza
dell'eccidio, portava lieve con sé le anime delle vittime per liberarle in un
cielo senza luce e senza dei. Dolorosa e difficile l'impostazione registica.
Può questa immane tragedia essere trattenuta in una struttura estetica? E
quale?... Quella con meno estetismi, ho pensato. Quella che non descrive ma
suggerisce: una "non scena" che disegna percorsi mentali, che
imprigionano o si schiudono alla speranza; una recitazione prosciugata che non
cerca compiacimenti né virtuosismi; una musica eletta che non cerca melodie; un
tentativo di coinvolgerci tutti in un ineludibile senso di colpa”.
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